In occasione del cinquantenario della scomparsa del grande artista, nello spazio espositivo milanese dell’Atelier Crespi sono esposti, fino al 22 luglio, quattro dipinti e cinque disegni su carta realizzati dal pittore-chirurgo Faccini
«Se tutte le tappe della mia vita potessero essere rappresentate come punti su una mappa e unite con una linea, il risultato sarebbe la figura del Minotauro», aveva affermato Pablo Picasso, genio indiscusso del XX secolo che reinventa l’arte. Tori, tauromachie e minotauri compaiono nell’intera sua produzione artistica, dal 1928 fino alla morte. In occasione del cinquantenario della scomparsa di Pablo Picasso (1881-1973) a Milano, nello spazio espositivo dell’Atelier Crespi (un laboratorio nel cuore di Brera, in cui si impara a disegnare, dipingere e plasmare arte, all’ ombra delle Belle arti di Brera e della Pinacoteca) sono esposti, fino al 22 luglio, quattro dipinti e cinque disegni su carta realizzati per l’occasione da Massimo Faccini, affermato chirurgo e pittore per vocazione (nato a Milano nel 1961, è figlio di un noto mercante d’arte) che propone, con esplosiva potenza, l’irruente forza del toro, l’impeto vitalistico che prende forma e si genera, in un una profusione di rosso nero arancione e giallo. «Non copia del simbolo picassiano, bensì strumento cognitivo per indagare il processo dinamico della lotta fra ordine e caos, i conflitti inconsci fra Eros e Thanatos», scrive Jacqueline Ceresoli nel catalogo. Tori dai corpi massicci immobili, o in torsioni quasi scultoree che trasudano di una forza primigenia. E suscitano pena se osservati nel loro titanico sforzo di sopravvivere alla ferocia umana.
All’inaugurazione della mostra è andato anche in scena un live painting dell’artista. Una mostra e un evento-performance fortemente voluto e curato da Jacqueline Ceresoli, critico d’arte, docente universitaria, curatrice di mostre, il suo ultimo libro è Light art paradigma della modernità (Meltemi editore).
Un’esperienza emozionale e sensoriale. Durante il live painting Massimo Faccini trasforma la grande tela bianca (tre metri per due) in una arena dove l’artista si esibisce nell’azione pittorica davanti al pubblico che ha modo così di partecipare e seguire il processo creativo dell’artista. E’ stato Harold Rosenberg – critico newyorkese di grande influenza nell’arte contemporanea dagli anni Cinquanta ai Settanta -, a scrivere riferendosi agli Action Painters (un nome su tutti: Jackson Pollock) che la tela “is not a picture but an event“: l’azione del dipingere è più densa di significato artistico della tela finita. «Vi è qualcosa nella pittura moderna importante quanto la tela, il tubetto di colore, la spatola, il pennello; ed è il gesto, l’atto materiale con il quale l’artista attraversa la tela: ampio o contratto, nervoso, solenne, lento o istantaneo, divenendo segno – racconta Ceresoli -. La tela non è più̀ uno spazio da progettare, ma un’arena su cui agire. La partecipazione empatica dell’artista a quell’opera, sentimento irripetibile come è irripetibile l’emozione del momento, viene condivisa dal pubblico».
In principio è la gestualità del carboncino nero che traccia linee stilizzate sul bianco della tela, poi nelle pennellate vibranti e sicure, suggerite da gesti impulsivi e ordinati insieme, muovendosi a destra e sinistra, di sopra e in basso alla tela, in un crescendo cromatico con un senso di partecipazione emozionale alla fisica irruenza della figura taurina che affiora. E sembra balzare fuori dalla tela.
Un omaggio a Picasso davvero originale. «Nel ricchissimo calendario internazionale delle commemorazioni già da mesi portate avanti, la città di Milano sembra aver dimenticato l’anniversario, almeno fino ad oggi», ci illustra ancora Jacqueline Ceresoli con una punta di rammarico e in punta di polemica. E pensare che proprio a Milano, nel 1953, nella Sala delle Cariatidi dalla struggente bellezza ancora devastata dai bombardamenti nazisti, Pablo Picasso aveva esposto la più famosa delle sue opere, Guernica dipinta nel 1937 contro la violenza della guerra. La mostra comprendeva 329 opere appese alle pareti dallo stesso Picasso, e segnò la rinascita culturale di Milano nel Dopoguerra. Il toro non può mancare anche in Guernica: assiste allo scempio del dolore di cui la tela è imbevuta. Pare che l’ambasciatore di Adolf Hitler, riferendosi al quadro, abbia chiesto all’artista: «È lei che ha fatto questo orrore?». «No, è opera vostra», avrebbe risposto Picasso.
Tori potenti e scalpitanti, disegnati, assemblati, scomposti. Minotauri e Corride, hanno costellato la carriera artistica di Picasso. Cosa rappresentavano per questo genio?
Il minotauro c’est moi, diceva. Una figura archetipa che simboleggia Il conflitto tra la parte istintiva, che non conosce né il bene, né il male e la ragione, la brutalità della pulsione erotica che sfuma in possesso e thanatos. Tuttavia è proprio Picasso a indicarci la strada e la modalità per riconciliarci con la nostra istintualità più feroce, e lo fa in una serie di disegni e dipinti. Il Minotauro è cieco, appare mansueto, spogliato della sua aggressività, segue con docilità una bambina che lo tiene per mano e il Minotauro anche se cieco sembra conoscere la strada che dovranno percorrere insieme.
Dalla mitologia greca alle corride
La Corrida è un simbolo delle tradizioni spagnole di cui Picasso andava fiero. A otto anni dipinge il suo primo quadro raffigurante la corrida. Il toro lo affascina per la sua potenza vitale e la bellezza sublime delle forme. Se disegnato nella caduta pronto a rialzarsi per attaccare chi lo minaccia. Nella sua natura selvaggia, capace di lottare fino alla morte, per difendere la sua libertà. Vittima sacrificale ed al contempo potenza distruttrice. E in una continua oscillazione di ruoli, nella sua pittura Picasso si è identificato con il toro e il matador. E poi c’è la sua ammirazione sconfinata e quasi infantile per Luis Miguel Dominguín, uno dei matador più importanti di Spagna (“Quella sì che è arte!”). Una straordinaria sequenza di foto che rivelano la felicità del pittore mentre finge di toreare con la montera in testa. Michel Leiris che all’opera di Picasso ha dedicato una lunga serie di saggi nel corso del tempo, diceva che Picasso “aveva la punta delle corna nello sguardo”… con cui infilzava le donne (Jacqueline ride, ndr). Vittime sacrificali della sua voracità sessuale che seduce e poi cambia preda. Fernanda, Eva, Olga, Marie-Thérèse, Dora, Francoise, Geneviève, Sylvette, Jacqueline. Le più note e conosciute. Che hanno contrassegnato il suo vivere e la sua opera. Elaborate, trasformate, sfigurate, composte e ricomposte, dalla sua bizzarra e geniale inventiva. Una donna, un’emozione artistica nuova.
A Milano dove possiamo ammirare i tori di Picasso?
Alla Galleria d’Arte Moderna di Milano è esposto Taureau, è un vaso di ceramica (1955) decorato con una grande figura di toro nero su bianco. Il corpo dell’animale è costruito con una sola campitura nera e due corna bianche evidenti. Questo toro ha perso tutta la potenza del minotauro degli anni precedenti, quasi mansueto. Alla Pinacoteca di Brera è custodita nella sala XXIII una potente Testa di toro un olio su tela del 1942. La testa mozzata dell’animale, ancora sanguinante, campeggia sulla tovaglia bianca di un tavolo, posto di fronte all’inquadratura di una finestra chiusa. Pennellate sintetiche di colore rosso caricano di orrore e dolore il teschio bovino quasi digrignante. “La pittura non è fatta per decorare gli appartamenti. E’ uno strumento di guerra offensiva e difensiva contro il nemico”, diceva Picasso. Aveva ragione.